mercoledì 31 ottobre 2018
Imporre quantità minime vincolanti nel contenuto di plastiche riciclate negli imballaggi, come vuole fare l’Unione europea attraverso la direttiva monouso, o il Governo britannico imponendo una tassa sui packaging che non contengono almeno il 30% di rigenerato, può sembrare una bella idea, ma richiede cautela nella sua applicazione.
Come fa notare il direttore della British Plastics Federation, Philip Law, il principio è lodevole e deve coinvolgere produttori, rivenditori, riciclatori fino ai consumatori. Ma bisogna porre cautela nel fissare per legge una soglia del 30% di materiale rigenerato negli imballaggi, se non si è acclarata prima l’esistenza di un’infrastruttura in grado di riciclare volumi sufficienti di plastica nel rispetto dei severi requisiti di igiene e sicurezza alimentare.
Anche perché la data di entrata in vigore, il 2022, è dietro l’angolo. Altrimenti - aggiungiamo noi - si tratta di una pura e semplice tassa sugli imballaggi in plastica, che graverà sulle tasche dei cittadini, oppure sposterà quote di mercato verso altri materiali, senza che a priori si possa affermare se ciò sia un bene o un male per l’ambiente.
Più realistica sembra, a questo proposito, la misura che Bruxelles vuole introdurre con la direttiva monouso, sia perché è circoscritta ai soli contenitori per bevande, più facili da recuperare in ciclo chiuso, sia perché il termine è il 2025, lasciando tempo di adeguare strutture di raccolta, riciclo e rigenerazione. Ciò è vero, però, per i soli paesi UE dove esistono già sistemi per la raccolta differenziata dei contenitori in plastica. In tutti gli altri, passare dallo smaltimento in discarica o termovalorizzatore direttamente al closed loop potrebbe non essere così facile.
Meglio sarebbe incentivare, con crediti di imposta e campagne di sensibilizzazione, i prodotti più virtuosi, lasciando al mercato il compito di guidare la transizione al packaging sostenibile.