2 gennaio 2018 12:45
Nonostante sia nota dalla fine del 2016 l’intenzione del Governo di imporre misure restrittive sulla commercializzazione di sacchetti ultraleggeri per ortofrutta (leggi articolo), ufficializzata nell’agosto dell’anno scorso con l’approvazione del decreto n. 91/2017 (disposizioni urgenti per la crescita economica nel Mezzogiorno), solo negli ultimi giorni i media e le associazioni dei consumatori si sono scatenati, in modo spesso scomposto, su origine e impatti del provvedimento, giudicato una sorta di tassa sui consumatori, sostanzialmente inutile, introdotta al solo scopo di favorire Novamont e altri produttori di bioplastiche.
Per Codacons è “un balzello inutile che non ha nulla a che vedere con l’ambiente e con la lotta al consumo di plastica”, che “determinerà un aggravio di spesa che potrà raggiungere i 50 euro annui a famiglia, laddove il costo degli shopper avrebbe dovuto essere interamente a carico dei supermercati e dell’industria”. Contraria al provvedimento anche Federconsumatori, che ritiene il nuovo provvedimento “importante e anche condivisibile, ma restano alcuni dubbi sulla scelta di introdurne l’utilizzo esclusivamente a pagamento”. Per il Giornale - in un articolo a firma di Giuseppe Marino (qui articolo integrale) - si tratta di un regalo alla Coop e a Catia Bastioli, AD di Novamont, definita “una capace manager che ha incrociato più volte la strada del Pd e di Renzi”.
A difendere la scelta del Governo - oltre ad Assobioplastiche - c’è Legambiente: “L’innovazione – afferma il direttore Stefano Ciafani - ha un prezzo ed è giusto che i bioshopper siano a pagamento, purché sia garantito un costo equo che si dovrebbe aggirare intorno ai 2/3 centesimi a busta”.
NON È UNA TASSA. In realtà, non si tratta di una nuova imposta. I proventi - se non indirettamente (IVA) - non finiranno nelle casse del tesoro, ma resteranno ad esercenti e grande distribuzione, a copertura dei maggiori costi dei sacchetti biodegradabili e biobased rispetto a quelli tradizionali. Per dare un'indicazione di massima, un sacchetto ultraleggero costa alla grande distribuzione tra i 2 e i 5 centesimi al pezzo, a seconda dei volumi e degli accordi con i fornitori.
Il prezzo del sacchetto al consumatore sarà deciso dal singolo esercente: e se ciò potrebbe essere fonte di speculazioni, è anche vero che nulla vieta ad un esercente di imporre un valore infinitesimale; l’unico vincolo, secondo la legge è che “il prezzo di vendita per singola unità deve risultare dallo scontrino o fattura d’acquisto delle merci o dei prodotti imballati per il loro tramite”. In una circolare, il Ministero dello Sviluppo economico ha confermato la liceità di vendere i sacchetti sottocosto, onde evitare - come si legge nella nota - "di far ricadere sul consumatore finale il costo derivante dall’introduzione e conseguente applicazione di una disposizione avente quale finalità la tutela ambientale".
PERCHÈ SOLO A PAGAMENTO? Qui il tema si fa più complesso. Per motivare l’obbligo di far pagare i sacchetti ultraleggeri è stata chiamata in causa una direttiva europea (2015/720), diramata da Bruxelles per ridurre il consumo di sacchetti monouso in plastica, che prescrive, come opzione: "l’adozione di strumenti atti ad assicurare che, entro il 31 dicembre 2018, le borse di plastica in materiale leggero non siano fornite gratuitamente nei punti vendita di merci o prodotti, salvo che siano attuati altri strumenti di pari efficacia”. Ma, una riga sotto si legge anche: “Le borse di plastica in materiale ultraleggero possono essere escluse da tali misure”.
In sostanza, nulla vieta di adottare misure restrittive per i sacchetti con spessore inferiore a 15 micron utilizzati a fini di igiene, compreso l’obbligo di far pagare il sacchetto - come ha fatto l’Italia -, ma non è Bruxelles a imporle. Infatti, come si legge nelle premesse della Direttiva: “gli Stati membri possono scegliere di esonerare le borse di plastica con uno spessore inferiore a 15 micron (“borse di plastica in materiale ultraleggero”) fornite come imballaggio primario per prodotti alimentari sfusi ove necessario per scopi igienici oppure se il loro uso previene la produzione di rifiuti alimentari”.
QUANTO COSTANO ALLA CASSA? A poche ore dall’entrata in vigore della legge, l’Osservatorio di Assobioplastiche ha svolto una prima ricognizione sui prezzi applicati a questi sacchetti, per ora limitata alla grande distribuzione.
Auchan, Conad, Coop Italia, Coop Lombardia, Eurospar, Gruppo Gros e Iper hanno fissato un prezzo di 2 centesimi a sacchetto. Costano invece la metà, 0,01 euro, gli ultraleggeri commercializzati nei punti vendita di Coop Toscana, Esselunga e Unes. Hanno deciso di applicare un prezzo di 3 centesimi di euro a sacchetto le catene Lidl, Pam e Simply.
QUANTO PAGHERA' IL CONSUMATORE? Indubbiamente qualche centesimo moltiplicato per più sacchetti (uno per ogni alimento) utilizzati per la spesa quotidiana o settimanale, alla fine dell’anno comporterà un aggravio di costo per i consumatori. Ma quanto? Molto dipenderà dal costo fissato dagli esercenti. Codacons stima un costo annuo per famiglia di 50 euro, mentre Assobioplastiche ridimensiona la cifra a un ordine di di grandezza in meno: considerando un consumo medio annuo per famiglia intorno a 150 sacchetti e un costo unitario compreso tra 1 e 3 centesimi, si arriva ad un onere complessivo di 2-4,5 euro l’anno.
Secondo i dati dell'analisi GFK-Eurisko presentati a Marca 2017, le famiglie italiane effettuano in media 139 spese anno nella GDO. Ipotizzando che ogni spesa comporti l'utilizzo di tre sacchetti per frutta/verdura, il consumo annuo per famiglia dovrebbe attestarsi a 417 sacchetti, per un costo compreso tra 4,2 e 12,5 euro.
Occorre anche considerare che il nuovo sacchetto ultraleggero è compostabile: quindi, dopo essere stato utilizzato per la spesa può tornare utile per il conferimento dell’umido, nei comuni in cui è in funzione la raccolta differenziata dei rifiuti organici, evitando l’acquisto di sacchetti specifici.
SI RIDURRÁ IL CONSUMO DI SACCHETTI MONOUSO? Difficile dirlo, ma non essendoci sempre alternative disponibili - come nel caso dei banconi ortofrutta dei supermercati - non è certo che la misura servirà a ridurre il consumo di sacchetti ultraleggeri in plastica. In alcuni casi, ove possibile, potrebbe favorire materiali alternativi come la carta, ma la praticità e la leggerezza della plastica difficilmente può essere compensata dall’aggravio di qualche centesimo di euro. C’è anche chi pensa che questa misura favorirà la vendita di verdura e frutta confezionata rispetto a quella sfusa: in realtà, il differenziale di prezzo a livello di packaging è a sfavore degli imballi rigidi (vaschette in plastica).
PERCHÈ NON POSSO PORTARE LA BUSTA DA CASA? C’è chi ha chiamato in causa la lobby dei produttori di bioplastiche per motivare la decisione della Grande distribuzione di vietare al consumatore di portarsi da casa il sacchetto per alimenti sfusi (verdure, frutta, carne, pesce), così come avviene con le buste per la spesa. In realtà le ragioni sono altre: in primis quella legata all’igiene, essendo questa tipologia di sacchetti destinata a contenere alimenti sfusi non altrimenti imballati; il rischio di contaminazione è reale ed è stato adombrato in passato anche per le buste per la spesa riutilizzabili più volte. Poi c’è la questione della taratura delle bilance per la pesa dei prodotti, che sono settate sui sacchettini distribuiti in prossimità dei banchi ortofrutta.
La legge, pur richiamando conformità alla normativa sull’utilizzo dei materiali destinati al contatto con gli alimenti nel caso dei sacchetti ceduti al pubblico, non norma espressamente questo punto. Tanto che il consumatore potrebbe utilizzare le proprie sporte o retine per gli acquisti nel negozio sotto casa, come per altro già avveniva in passato. Questa possibilità è stata ammessa espressamente da una circolare del Ministero dello Sviluppo economico, in attesa del pronunciamento del dicastero della Sanità. Tecnicamente è possibile estendere questa pratica anche a livello GDO, come dimostra il caso della Coop Svizzera con le sporte Multi-Bag (leggi articolo)
FAVORIRÁ i PRODUTTORI DI BIOPLASTICHE? Senza dubbio, ma in fondo potrebbe essere utile - a livello di sistema paese - favorire un’industria nazionale con prospettiva di crescita rispetto ad un prodotto - il sacchetto di polietilene - che può essere acquistato in ogni angolo del pianeta a prezzi di commodities. Va anche detto che Novamont non è l’unica azienda a produrre bioplastiche per film, anche se è il principale fornitore di polimeri biobased e compostabili in Italia. Uno dei competitor - solo per citare il più noto - è il gruppo tedesco BASF.
MA QUANTO VALE IL MERCATO? Non esiste (ancora) uno studio specifico sul mercato italiano dei sacchetti ultraleggeri per il confezionamento di alimenti sfusi, ma la società di consulenza Plastic Consult - che da anni monitora il settore delle materie plastiche e, più recentemente, l'evoluzione dei sacchetti monouso in plastica - stima che il consumo si attesti tra 20mila e 30mila tonnellate annue tra polietilene e bioplastiche.
COSA DICE LA LEGGE? Come indicato dalla legge 123/2017 del 13 agosto scorso, dal 1° gennaio 2018 dovranno essere biodegradabili e compostabili secondo la norma UNI EN 13432 i sacchetti ultraleggeri – con spessore inferiore a 15 micron - utilizzati per il confezionamento di merci e prodotti, a fini di igiene o come imballaggio primario in gastronomia, macelleria, pescheria, ortofrutta e panetteria. Oltre ad essere idonei per l’uso alimentare, con l’anno nuovo i sacchetti dovranno avere un contenuto minimo di materia prima rinnovabile (secondo EN 16640:2017) pari ad almeno il 40%, che salirà al 50% a partire da gennaio 2020 e al 60% dal 2021.
La nuova norma impone anche che i sacchetti per ortofrutta, così come gli shopper, non possano essere ceduti a titolo gratuito e che il prezzo di vendita risulti dallo scontrino o dalla fattura di acquisto. Inoltre, sui sacchetti dovranno essere apposti elementi identificativi del produttore e diciture idonee ad attestare il possesso dei requisiti di legge.
La sanzione per chi contravviene alla norma, violando anche solo uno dei dei requisiti cumulativi, parte da 2.500 e può arrivare fino a 100.000 euro se la violazione del divieto riguarda ingenti quantitativi di borse di plastica oppure se il loro valore è superiore al 10% del fatturato del trasgressore. Ma, va ricordato, la sanzione riguarda solo distributori ed esercenti, non il consumatore trovato in possesso di una borsa fuori norma.
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