9 ottobre 2017 16:57
Due anni fa Assobioplastiche, Corepla, Conai e CIC hanno sottoscritto un accordo di programma con l’obiettivo di sostenere e promuovere una migliore gestione ambientale degli imballaggi in plastica biodegradabile e compostabile (leggi articolo), destinati a due diversi circuiti di fine vita: riciclaggio meccanico per contenitori e film da imballaggio in plastica convenzionale, impianti di compostaggio industriale per gli imballaggi in plastica biodegradabile e compostabile.
Come parte dell’accordo, finanziata con una parte dei ricavi versati dai produttori di bioplastiche con il Contributo Ambientale Conai (CAC), era prevista una campagna di sensibilizzazione rivolta ai cittadini, appena partita (Dicheplastica6), e un'attività di monitoraggio, ricerca e sperimentazione nella filiera del riciclo organico, anche al fine di valutare gli effetti dei diversi materiali, simili all’aspetto, quando conferiti nel circuito sbagliato, ovvero plastiche biodegradabili nei centri di riciclo meccanico e plastiche fossili negli impianti di compostaggio.
I primi risultati dell’accordo di programma sono stati presentati oggi a Milano nel corso del workshop “ll settore del biowaste, caratteristiche ed opportunità per plastiche e bioplastiche compostabili”, alla presenza dei presidenti delle quattro associazioni firmatarie: Marco Versari di Assobioplastiche, Antonello Ciotti di Corepla, Giorgio Quagliolo di Conai e Alessandro Canovai del Consorzio Italiano Compostatori (CIC).
QUANTO VALGONO GLI IMBALLAGGI IN BIOPLASTICA? Ad aprire i lavori è stato Paolo Arcelli di Plastic Consult, che ha inquadrato il mercato degli imballaggi compostabili in Italia, in termini di produzione italiana e immesso al consumo; dati fondamentali per cogliere sia la dimensione del fenomeno, sia la destinazione dei rifiuti una volta esaurita la loro funzione.
Il primo dato è che le bioplastiche si confermano una frazione marginale dei materiali plastici utilizzati nel settore del packaging, limitata al segmento del sacchettame. Sui 2,18 milioni di tonnellate di imballaggi plastici immessi al consumo in Italia, la loro incidenza è intorno al 2%, vale a dire circa 48mila tonnellate, contro il 43% del polietilene, il 22% del PET, il 21% del polipropilene e l’8% delle stireniche (PS ed EPS). Quota che sale al 4% del totale se si considerano i soli imballaggi flessibili (930.000 t/ nel 2016), segmento prevalente per le bioplastiche, che vedono applicazione nei sacchetti per la spesa e per l’umido (questi ultimi però fuori dal perimetro del packaging), film per alimenti e confezionamento di generi sfusi (ortofrutta) e film per confezionamento non alimentare; rientrano invece nel ‘rigido’ bottiglie, articoli monouso flaconi e contenitori stampati o termoformati.
SOPRATTUTTO SACCHETTI. Per quanto concerne le diverse tipologie di packaging compostabili, il sacchetto per la spesa - il famigerato shopper - rappresenta il 94% del totale, anche in virtù del divieto di mettere in vendita sacchetti monouso non compostabili; il resto se lo spartiscono in quote pressoché uguali (2% ognuno) film, articoli monouso e altri imballaggi. Focalizzando l’attenzione sui sacchetti monouso in plastica, emerge che delle 91.000 tonnellate che costituiscono il mercato italiano 2016, le bioplastiche valgono ’solo’ 45mila tonnellate, mentre le non compostabili - quindi non a norma - le restanti 46.000 tonnellate; certamente meglio del 2015, quando - a fronte di 40mila tonnellate di bioplastiche - si registravano 56mila tonnellate di plastiche convenzionali. Secondo le previsioni di Plastic Consult, quest’anno potrebbe avvenire il sorpasso dei sacchetti legali sui ‘fuorilegge’ e la situazione dovrebbe ulteriormente migliorare l’anno prossimo, quando l’uso delle bioplastiche compostabili sarà esteso anche agli ultraleggeri per ortofrutta, riducendo il fenmeno dei sacchetti ‘per uso interno'.
LA FILIERA DEL COMPOSTABILE. Plastic Consult ha anche fotografato la filiera italiana dell’imballaggio biodegradabile e compostabile, dal granulo al prodotto finito: si tratta di 150 aziende, tra cui 17 fornitori di materie prime (compresi distributori e filiali commerciali di gruppi stranieri), un centinaio di aziende di prima trasformazione e poco più di trenta aziende operanti nella seconda trasformazione. Un settore che fattura 325 milioni di euro ed occupa quasi 4mila addetti, anche se in molti casi la produzione di imballi compostabili è solo una delle attività dell’azienda; quelle altamente specializzate, che operano solo nel packaging compostabile, sono infatti una ventina. La produzione di imballaggi compostabili in Italia ha raggiunto l’anno scorso 50mila tonnellate (il dato differisce dall’immesso al consumo per le dinamiche import-export), in crescita rispetto alle 44.500 tonnellate del 2015 e alle 32.000 ton dell’anno prima.
PLASTICHE NEL COMPOST. A fine vita, gli imballaggi in plastica e quelli in bioplastica devono seguire strade differenti, ma per il consumatore non è facile capire la differenza e conferire il materiale nel giusto contenitore. Così, plastiche non biodegradabili finiscono negli impianti di compostaggio. Per stimare l’impatto di questa contaminazione, il CIC ha condotto una ricerca in 27 impianti, che nel complesso trattano quasi due milioni di tonnellate, corrispondenti al 30% dei rifiuti urbani e al 41% dell’umido proveniente da raccolta differenziata a livello nazionale. La frazione non compostabile - plastiche e altri materiali - ammonta al 5%, di cui le sole plastiche valgono il 3,1%, oltre due volte più delle bioplastiche (1,4%) conferite in modo corretto nella raccolta differenziata. In termini assoluti, considerando il secco (eliminando così dal computo il contenuto di umidità), finiscono negli impianti di compostaggio poco più di 30mila tonnellate di bioplastiche e ben 73mila tonnellate di plastiche convenzionali; considerando che ogni tonnellata di non compostabile ne origina quattro di scarto che deve essere smaltito, il costo della contaminazione incide, sui compostastori, per circa il 5% degli oneri totali.
L’indagine del CIC fornisce anche un quadro delle abitudini degli italiani in merito all’utilizzo di sacchi e sacchetti per la raccolta della frazione organica. Nonostante l’obbligo di raccolta con manufatti biodegradabili e compostabili, oltre il 43% dei sacchi utilizzati per contenere l’umido non è risultato compostabile, mentre il restante 57% è costituito da bioshopper e da sacchetti compostabili dedicati alla raccolta differenziata dei rifiuti organici.
BIOPLASTICHE NEL RICICLO. Una ricerca speculare condotta da Corepla ha affrontato il caso opposto, ovvero la contaminazione delle plastiche riciclate provenienti da rifiuti di imballaggio con polimeri degradabili. Frutto di due campagne di analisi (ottobre 2016 e marzo 2017) in 19 centri di selezione rifiuti a livello nazionale, che nel complesso trattano il 75% del totale, l’indagine ha riscontrato - in ingresso - una presenza di imballaggi compostabili pari a circa lo 0,85% della plastica conferita, soprattutto sacchetti e shopper finiti nel bidone sbagliato. Si può quindi stimare un volume di 7.500 tonnellate di imballaggi compostabili erroneamente conferiti nel circuito di raccolta Corepla: pochi a livello assoluto, pur sempre il 16% delle plastiche compostabili immesse al consumo.
Da notare che la percentuale di imballaggi biodegradabili presenti nella plastica differenziata dipende in modo rilevante dalla tipologia di raccolta: si va infatti dallo 0,07% quando si raccolgono in modo separato solo bottiglie e flaconi (quindi con assenza di film) all’1,83% del multimateriale pesante, con uno 0,82% intermedio nel caso della classica raccolta differenziata per materiale.
Corepla ha anche stimato la percentuale di plastiche compostabili in uscita, ovvero la contaminazione dei materiali destinati al riciclo. Nel complesso si tratta di 1.329 tonnellate nel 2016 (volume che quest’anno dovrebbe salire a 1.711 ton), con un’incidenza molto variabile a seconda del prodotto: si va infatti dallo 0,01 della categoria CTC (bottiglie PET) all’1,89% della MPOF/C (imballaggi in poliolefina), mentre nei prodotti di categoria FIL/S (film) è stata riscontrata una percentuale di contaminazione dello 0,96%.
QUINDI DOVE FINISCONO LE BIOPLASTICHE? Considerando la differenza tra immesso al consumo (includendo anche i sacchetti per l'umido, a tutti gli effetti non imballaggi, stimati tra 6.000 e 9.000 ton) e quantità recuperate in modo più o meno adeguato, emerge che solo poco più della metà dei manufatti biodegradabili EN13432 trova il suo fine vita naturale negli impianti di compostaggio; quasi un quinto circa finisce per errore negli impianti di riciclaggio meccanico e il restante, con tutta probabilità, termina la sua vita in discarica o nel termovalorizzatore.
Uno spreco di risorse se si considera che, secondo studi sul campo condotti dal CIC, le bioplastiche risultano pienamente compatibili con gli impianti di compostaggio, purché alla fase di digestione anerobica segua quella aerobica. In queste condizioni, infatti, con una concentrazione di bioplastiche dell’1% (equivalenti ad un immesso al consumo di 60.000 t/a), si ottiene il 96% di degradazione, che scende al 94,8% se il tenore sale al 3% (immesso al consumo di 180.000 t/a). Quanto basta per non creare problemi alla filiera del compostaggio.
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