2 ottobre 2019 11:49
Non sono le bioplastiche, ne soluzioni di imballaggio più sostenibili e nemmeno la carta le alternative possibili all’inquinamento da plastica.
É quanto afferma l’associazione ambientalista Greenpeace in un recente report (“Il Pianeta usa e getta. Le false soluzioni delle multinazionali alla crisi dell’inquinamento da plastica” sintesi scaricabile QUI) nel quale sottolinea non solo i rischi per gli oceani dovuti al marine litter e all’inquinamento da microplastiche, ma anche presunti legami diretti tra la produzione di plastica e i cambiamenti climatici.
Se le plastiche vergini fossili sono ritenute responsabili anche del climate warming, per le emissioni causate dall’incenerimento dei rifiuti, le plastiche riciclate e le bioplastiche - proposte dalle “grandi multinazionali” come soluzioni al problema - non vengono assolte da Greenpeace.
Nel caso degli imballaggi in biopolimero, l’accusa è di essere solo in parte prodotte con fonti rinnovabili, di non risolvere il problema della dispersione accidentale nell'ambiente e di essere compostabili - quando lo sono - solo in ambienti controllati, ovvero in impianti industriali. In mancanza di tali infrastrutture - afferma l'associazione - le bioplastiche finiscono spesso per essere smaltite in discarica o negli inceneritori esattamente come le plastiche monouso convenzionali. Inoltre la maggior parte della plastica a base biologica proviene da colture agricole che, oltre a competere con la produzione di alimenti, cambiano l’uso del suolo e aumentano le emissioni di gas serra.
Non passano l’esame neanche gli imballaggi riciclabili, poiché il fatto che un prodotto sia riciclabile non significa che sarà riciclato, tanto che - si legge nel report - oltre il 90% di tutta la plastica mai prodotta non è mai stata riciclata. Secondo Greenpeace, il problema non risiede tanto nella qualità del materiale usato per realizzare l’imballaggio, quanto la quantità che ne viene prodotta. "I sistemi di riciclo attuali non sono in grado di recuperare una quantita? di materiale tale da ridurre la domanda di plastica vergine e di assicurare un adeguato smaltimento della crescente quantità di rifiuti prodotti”.
Non va bene nemmeno il riciclo chimico, poiché - si legge nel report - impiega sostanze chimiche pericolose, principalmente solventi, richiede un uso intensivo di energia e infrastrutture costose e ancora poco efficienti.
E la carta? Sembra una soluzione eco-friendly ed è percepita come un materiale con minor impatto ambientale, ma - sottolinea Greenpeace - derivando dal legno, una sostituzione degli imballaggi in plastica con quelli in carta finirà per avere un forte impatto sulle foreste, sulla biodiversità e sul clima del Pianeta. Un altro aspetto critico riguarda il sistema del riciclo della carta che non sarebbe in grado di fornire, su scala globale, una quantità e qualità di fibre tali da far fronte all’aumento della domanda proveniente dall’industria del packaging.
La soluzione - afferma Greenpeace - è una sola: produrre meno rifiuti, specialmente rifiuti in plastica monouso. I produttori di beni di largo consumo dovrebbero quindi impegnarsi "pubblicamente ed immediatamente" ad eliminare la plastica monouso, partendo dalle tipologie di packaging superflue e più problematiche per il riciclo, riducendo il numero di imballaggi e contenitori in plastica immessi sul mercato e investendo in sistemi di distribuzione basati sullo sfuso e sulla ricarica.
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Amut ha avviato in Australia il suo terzo impianto di riciclo in due anni mezzo, con piena soddisfazione del cliente. Dopo il PET è la volta delle poliolefine.