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La plastica siamo noi, ovvero il nostro modello di consumo

giovedì 26 novembre 2020

La plastica siamo noi, che partecipiamo a vario titolo e con un diverso contributo e grado di responsabilità, a un modello ormai anacronistico basato sullo spreco di risorse a discapito delle generazioni future.

Un modello ben lontano dall’essere sostenibile quello attuale se applichiamo la definizione uscita dal rapporto Brundtland (1)e che ci vede tutti coinvolti. I cittadini in primis che hanno un rapporto schizofrenico con la plastica, perché se da un lato la “detestano” – e giustamente – per l’inquinamento ambientale, dall’altro non vogliono rinunciare alle comodità che la versatilità e la funzionalità del materiale permettono.

Poi vengono i decisori aziendali che, in assenza di un contesto legislativo (Responsabilità Politica ahimè, qui non ancora pervenuta) che guidi verso modelli di economia circolare (ovvero sistemi che prevedono di cicli di utilizzo sostenibili). Invece di ripensare prodotti e modelli di commercializzazione/erogazione i grandi marchi rispondono al sentiment antiplastica con “false soluzioni”pur di non perdere vendite e fatturato.

Ed ecco che entra in gioco tutta la narrazione sui materiali ecosostenibili che lo sarebbero, prevalentemente, perché si biodegradano, e in misura minore perché si riciclano all’infinito, come l’alluminio. Non per nulla si trovano da due a tre volte in più lattine nel littering rispetto alle bottigliette di plastica negli ultimi anni…Peccato che gli stessi produttori di lattine siano i più grandi oppositori dei sistemi di deposito con cauzione che ridurrebbero il littering e la dispersione della plastica nell’ambiente.

I sistemi di deposito sono uno degli strumenti più potenti per creare un’economia circolare per i contenitori di bevande (di qualunque tipo) e riportare in auge il vuoto a rendere con refill. Che cosa sta facendo la politica per promuovere il riuso e il riciclo? Non è ancora dato saperlo ma quello che è certo è che il Senato ha approvato un emendamento per vietare anche i bicchieri in plastica e poterli sostituire con le bioplastiche compostabili monouso (che sarebbero vietate come le plastiche tradizionali per quei prodotti che la Direttiva SUP bandisce) .

Sondaggi internazionali degli ultimi due anni, e lo studio SCELTA (2) in Italia, hanno evidenziato che la biodegradabilità/compostabilità – e quindi i materiali che sulla carta la dichiarano – viene percepita come un vantaggio ambientale persino a discapito della durevolezza e della potenzialità di riuso che questa caratteristica permette. Siamo arrivati la punto in cui “scomparire” è preferibile a durare. Forse perché così scompare la prova di un consumo o di una scelta “insostenibile”? A ricordarci con la loro presenza che stiamo sbagliando qualcosa, visto che la natura non produce li produce, sono proprio i rifiuti, che li vogliamo lontano dagli occhi, lontano dal cuore.

Figli di questo “approccio ex post” che salta a piè pari le azioni prioritarie della gerarchia europea come prevenzione e riuso (azioni reali e misurabili) rispetto a riciclo/compostaggio ( dati spesso poco affidabili e trasparenti nei metodi di rilevazione da qui azione europea di omogenizzazione dei sistemi) sono le innovazioni che agiscono sui materiali e non sul sistema che dovrà accoglierli: dalla paper bottle agli imballaggi in bioplastiche e poliaccoppiati. Invece di risolvere i problemi che abbiamo con le plastiche, e decidere (applicazione per applicazione), quale materiale “funziona meglio” in uno specifico sistema/contesto, o quando la dematerializzazione del packaging è possibile, buttiamo il bambino con l’acqua sporca, e andiamo a fare con altri materiali gli stessi errori fatti con la plastica.

Queste sono alcune immagini di ipermercati che rappresentano quello che è diventato il nostro modello di consumo. Quindi non sono le immagini a slogan plastic-free che girano sui social, prese chissà dove, su cui indignarsi.

Dalle banane sbucciate in vaschetta del Marocco, all’uovo fritto in vaschetta, ai 12 acini di uva confezionati in astuccio di plastica della tradizione spagnola di fine anno. Solo per citare l’oggetto delle più recenti condivisioni avvenute su facebook.

Non è stato fornito nessun testo alternativo per questa immagine

Parliamo di noi invece e chiediamoci se il problema è solamente la plastica, o se invece il problema siamo noi, che vorremmo salvare capra e cavoli (ovvero non rinunciare alle comodità di avere un pasto pronto in pochi minuti) cullandoci in comodi alibi per i quali la colpa è sempre di qualcun altro. In questo caso dei produttori di alimentari o dei supermercati.

Come anticipato nella premessa i materiali “sostenibili” non possono o smettono di esistere in cicli di consumo insostenibili. Chi asserisce il contrario – dal fronte della politica a quello ecologista e ambientalista – o di ambiente ne capisce poco, oppure sta difendendo gruppi di interesse che vogliono conquistare la fetta di mercato della plastica.

I supermercati, per avere in assortimento tutta la vasta gamma di cibi freschi (dall’antipasto alla frutta) che il mercato richiede (3) devono approvvigionarsi di migliaia e migliaia di banchi frigo con un impatto sulle emissioni di gas climalteranti che non potrà che peggiorare una situazione che è già drammatica. Ho cercato dati sull’impatto della refrigerazione in termini di emissioni climalteranti e credo si possa ipotizzare che aggiunga a spanne un aggravio di emissioni del 4% , includendo il trasporto.

Uno studio dell’ Università di Manchester che ha comparato le emissioni di Co2 causate dei sandwich venduti dalla GDO inglese con quelle dei panini fatti in casa ha rilevato che l’impronta complessiva di carbonio di un panino, a seconda degli ingredienti, tra produzione della materia prima e processi produttivi vale dal 37%-67% dell’impatto complessivo. Se il materiale impiegato per il confezionamento pesa per l’ 8.5 %, l’impatto dovuto al trasporto e alla refrigerazione nei negozi, è responsabile di ben un quarto dell’impronta di carbonio complessiva di un panino. Va tenuto conto dell’effetto che sulla richiesta di energia avrà anche il maggiore ricorso al condizionamento nelle abitazioni private man mano che le temperature aumenteranno.

Va detto che l’informazioni ambientale verso i cittadini è inesistente su questo fronte. Infatti l’impatto che questo modello di consumo ha sul consumo di risorse, produzione di inquinamento e rifiuti viene notevolmente sottostimato, quando non sottaciuto.

Non viene quasi mai evocato quando si parla, ad esempio, di dover ridurre le emissioni climalteranti del 55 % al 2030 (obiettivo europeo ) che il Politecnico di Milano dice comporti tagliare altri 94 milioni di tonnellate di CO2. (4)

Serve dunque – ha ribadito Chiesa –raddoppiare la potenza installata per l‘eolico e aumentare di quasi tre volte quella per il fotovoltaico“.

Ma siamo seri, crediamo davvero di potere ricoprire l’Italia e il mondo di pale eoliche, pannelli fotovoltaici ed altre tecnologie per poi sprecare tutto il risparmio energetico che potremmo conseguire da misure come l’efficientamento energetico degli edifici (e simili ) per poi andare ad alimentare modelli come questo? E per i 10 miliardi di abitanti che diventeremo ?

(1) Il rapporto Brundtland nel 1987 definisce come sostenibile un modello di sviluppo in grado di soddisfare i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri. (WCED,1987)

(2) SCELTA Sviluppare la Circular Economy facendo Leva sulle Tendenze di Acquisto Gruppo di Lavoro della Scuola Superiore Sant’Anna.

(3) Monoporzioni, è boom di acquisti dal formaggio alla frutta

Boom del confezionato, verdura regina della Gdo

(4) Politecnico di Milano, l’Italia deve tagliare 94 milioni di tonnellate di CO2

 

di: silvia ricci
"Gli articoli in questa sezione non sono opera della redazione ma esprimono le opinioni degli autori"
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